E’ da lungo tempo ormai che gli americani si sono resi conto che le guerre nel Medio Oriente non possono concludersi attraverso negoziati e che le ostilita’ ed il terrorismo continueranno ad imperversare ed a mietere vittime nella regione. A giudicare da poche frasi del suo messaggio sullo stato dell’Unione, sembrerebbe che il presidente Trump sia deciso ad evitare il coinvolgimento dell’America in altri conflitti ed a ritirare gradualmente le forze americane dallo scacchiere medio-orientale. Gli americani sanno quanto sangue e quante risorse sia costato il coinvolgimento degli Stati Uniti in quei conflitti: 6.950 militari americani hanno perso la vita e con essi 7.800 “contractors” del Pentagono ed altre agenzie governative. Per non parlare delle vittime nelle guerre combattute in Irak, Afghanistan, Yemen, Siria e Libia, che secondo uno studio della Brown University hanno provocato 480.000 morti, mentre il costo materiale per la sola America viene calcolato in 8 trilioni di dollari. Un altro dato impressionante dello studio e’ che ventuno milioni di persone sono divenute rifugiati all’interno e all’esterno dei rispettivi Paesi.
Tutti sanno che Donald Trump agisce in base a quello che gli americani chiamano “gut sense”, un istinto cioe’ circa il da farsi che non tiene conto di consigli qualificati o meno. Quel che invero comincia a delinearsi e’ la frustrazione del presidente per gli sforzi dei suoi consiglieri e la preferenza per un corso di azione che porti a ridurre e possibilmente a terminare la guerra senza fine contro l’estremismo islamico. Di fatto, il presidente ha dichiarato ripetutamente di voler ritirare le forze americane dalla Siria e dall’Afghanistan. Le resistenze di parte della pubblica opinione, ed in modo speciale degli interessi politici ed economici che traggono benefici dalla guerra senza fine, si accomunano ai dubbi circa la volonta’ del presidente di chiudere la partita mediorientale. Alla base di tali dubbi e’ il contenimento dell’Iran e della sua crescente sfera di influenza che e’ al centro della politica mediorientale dell’amministrazione, anche se in realta’ manca una vera strategia su come raggiungere quel risultato. Per quanto improntata alla bellicosita’ nei confronti di Teheran, l’ipotesi di un’imminente campagna militare contro l’Iran non appare credibile negli stessi ambienti del Pentagono.
Resta dunque il quesito se Trump sia veramente in procinto di sganciare la presenza americana dai teatri di interminabili conflitti nel Medio Oriente, avendo giudicato che un settore del suo elettorato di base riflette una diffusa stanchezza per il costoso, se non inutile impegno in quella regione. Donald Trump e’ certamente il migliore conoscitore di quel settore dell’elettorato. La decisione di un presidente repubblicano di uscire dalla palude mediorientale sarebbe l’equivalente della storica missione di Richard Nixon in Cina. Una strategia interna potrebbe ancora una volta spiegare l’incognita di una Grande Strategia esterna. America First non ha, ne’ potra’ mai avere una valenza esterna.
Vi e’ un altro importante aspetto della imprevedibilita’ della politica estera di Donald Trump, oltre a quello ormai accertato della sua antipatia nei confronti di quegli alleati che non pagano e non accettano i diktat di Washington. A due anni dalla prossima elezione presidenziale, Donald Trump non puo’ permettersi di passare alla storia come il presidente che perse l’Afghanistan. Perche’ questa sarebbe la fatale conseguenza di un ritiro a breve scadenza che realisticamente porrebbe fine ad un governo e ad un ordine politico che l’America ha costruito e difeso per diciassette anni ad un costo enorme. L’intervento di un “intervallo decente” – tra il ritiro dall’Afghanistan e la conquista di Kabul da parte dei talebani – e’ una vecchia illusione sin dai tempi del Vietnam, per quanto si possa additare il fatto che l’opinione pubblica americana accetto’ la vittoria dei nord vietnamiti alla breve distanza di due anni dagli accordi di Parigi del 1973. Per quanto gli americani siano ancora una volta disposti ad accettare l’avverso esito della difesa dell’Afghanistan, un’intesa con i talebani porterebbe immancabilmente alla perdita di valori cruciali per lo sviluppo del Paese, dalla liberta’ di stampa ai diritti civili, dai diritti delle donne all’educazione pubblica. Gli americani si sono sforzati di garantire i frutti di una societa’ civile spronando la nuova generazione di afghani a difendere i diritti e le liberta’ conquistati a caro prezzo. In particolare, si calcola che gli Stati Uniti abbiano versato nell’Afghanistan 45 miliardi di dollari all’anno, tredici dei quali spesi per mantenere un contingente di 14.000 soldati. Il resto di quell’esborso e’ andato alle forze di sicurezza afghane ed all’assistenza economica e agricola.
Ed ora sono in atto trattative di pace con i talibani che per quanto fattibili non promettono la sopravvivenza di una societa’ libera in Afghanistan. E’ da quindici anni che i talibani proclamano di essere pronti a trattare con il governo americano ma a condizione che il governo afghano non sieda al tavolo di negoziato. Le ultime indicazioni confermano l’avvio di trattative senza la partecipazione del governo afghano. A questo proposito, l’ex ambasciatore americano a Kabul, Ryan Crocker, osserva che se questo e’ invero il “fast track”, ossia il percorso piu’ rapido per il ritiro americano, non manchera’ di “diminuire drammaticamente la sopravvivenza del governo, incluse le forze armate”. Un’immediata conseguenza segnalata da Crocker e’ che le forze di sicurezza afghane non opporranno piu’ la resistenza degli ultimi anni.
Il quesito di fondo comunque e’ fino a che punto sia ancora valida l’enunciazione politica del Presidente Trump del 2017 circa l’esistenza di “sostanziali interessi” dell’America nell’Afghanistan. Nel 2011-2012 gli interessi di sicurezza americani giustificavano la presenza di piu’ di 100.000 uomini nell’Afghanistan. L’ambasciatore Crocker ricorda, correttamente, che fu Al Qaeda, con la protezione dei talibani, che attacco’ gli Stati Uniti l’11 Settembre 2001. Cosa ci dice che i talebani sono diventati “piu’ gentili”?, si chiede Crocker. Il monito del diplomatico non va disgiunto da un altro antecedente storico, quello degli Anni Novanta, quando i talebani commisero stragi e distruzioni massiccie sopprimendo fondamentali diritti civili.
Non vi e’ dubbio che nella nuova fase strategica assecondata dal Presidente Trump i talibani siano nella posizione di fissare i termini delle trattative di pace mentre a Washington spetta il delicato, se non impossibile, compito di convincere gli afghani che i talibani rispetteranno le clausole dell’accordo finale. I talibani esigono il completo ritiro delle forze americane dall’Afghanistan. Molti esponenti del Congresso e del mondo politico, per non parlare dei circoli militari, si oppongono a qualsiasi progetto di “fast track” per l’uscita dall’Afghanistan. Una via di mezzo sarebbe peraltro quella di mantenere un’esigua presenza nell’Afghanistan sotto forma di forze speciali. Il sospetto e’ che potrebbero far poco piu’ che presidiare la capitale e altri capisaldi governativi. Lo stesso presidente Trump ha adombrato questa possibilita’ quando ha dichiarato in un’intervista televisiva: “manterro’ la intelligence e se dovessi vedere la formazione di nidi armati, agiro’ di conseguenza”. In conclusione, molti elementi emersi lasciano ritenere che il piu’ lungo conflitto nella storia dell’America e’ entrato in una nuova fase dinamica che puo’ effettivamente portare al ritiro delle forze americane, a condizione che i talibani abbandonino le armi e la violenza. Per convincere l’opinione pubblica che l’Afghanistan non sara’ abbandonato al suo destino, il presidente Trump potra’ ricorrere all’assicurazione che l’Afghanistan non rappresentera’ una minaccia terroristica per l’America. Potrebbe bastare per districarsi da quella guerra senza fine, anche se il futuro sembra purtroppo destinare gli afghani ad un sistema islamico.