C’era una volta a Washington uno Special Prosecutor, ossia un pubblico ministero incaricato di svolgere una delicata indagine sul comportamento del presidente Trump, di nome Robert Mueller. Su di lui si appuntavano le speranze dei democratici di
mettere formalmente sotto accusa il presidente repubblicano. Ebbene, di Robert Mueller si sono perse le trace, è scomparso dalla scena politica americana come un poscritto inutile. Al centro del lavoro di indagine dello Special Prosecutor era il torbido affare delle ingerenze russe nell’elezione presidenziale del 2016 e dei rapporti occulti tra i russi e l’organizzazione elettorale di Donald Trump. L’indagine di Mueller fu condotta più o meno in segreto, senza rapporti per il pubblico, salvo sporadici annunci circa il rinvio a giudizio e le confessioni di alcuni personaggi minori associati alla presidenza Trump. Il rapporto finale dello Special Prosecutor conteneva alcuni riferimenti a possibili reati di ostruzione della giustizia commessi dal presidente ma il testo ufficiale non metteva agli atti alcun reato specifico. Di fatto, Mueller non aveva l’autorità per rinviare Trump a giudizio. In sintesi, il rapporto conclusivo riferiva prove della collaborazione intervenuta tra l’organizzazione elettorale di Trump ed i russi ma non imputava a Trump il reato di ostruzione della giustizia. La delusione degli ambienti democratici che intendevano mettere formalmente sotto accusa il presidente repubblicano era ovviamente enorme e giustificata dal fatto che lo Special Prosecutor aveva investito un ingente stanziamento federale e mesi di lavoro con un nutrito staff di avvocati per poi restare con un pugno di mosche in mano.
Ed ora i democratici temono che la storia si ripeta e che le indagini promosse dall’Attorney General Merrick Garland non porteranno all’incriminazione dell’ex presidente per il tentato colpo di stato del 6 gennaio. Tra Mueller e Garland passa comunque una cruciale differenza, che contrariamente a Mueller, il Ministro della Giustizia Garland ha la piena autorità di rinviare a giudizio Donald Trump. Ma c’è un’altra decisiva differenza in gioco, che un organo congressuale – il Select Committee della Camera dei Rappresentanti – ha raccolto e diffuso una massa di testimonianze e prove accertate che sostengono un preciso capo d’accusa
della responsabilità dell’allora presidente nell’istigare una sommossa mirata a rovesciare il risultato dell’elezione presidenziale del novembre 2020. La parola più autorevole in merito l’ha detta uno dei maggiori esperti costituzionali, il professore emerito di Harvard Laurence Tribe, acerrimo nemico di Trump. “Non rinviare a giudizio Trump equivale a conferirgli un perdono non meritato”, ha detto Tribe. Ed ha aggiunto: “Conferire la grazia legale non rientra nei compiti dell’Attorney General”. La definizione è ovviamente errata perchè il potere di concedere la grazia spetta unicamente al presidente, ma è innegabile che una decisione alla Ponzio Pilato dell’Attorney General equivarrebbe a scagionare l’ex presidente. Non mancano però voci contrarie ad un intervento diretto dell’Attorney General che segnerebbe una drammatica revisione del dettato costituzionale in un senso squisitamente politico mentre è compito fondamentale dell’Attorney General quello di sostenere e difendere
la costituzione degli Stati Uniti.
Il dibattito circa l’impatto a lungo termine di possibili decisioni politiche non può che influire sul metro di giudizio del Dipartimento della Giustizia, che è giustamente preoccupato dalla difficoltà di istruire procedimenti giudiziari a carico di un presidente in carica o di un ex presidente sottratti all’influenza politica del momento. Ma l’Attorney General dovrebbe tener conto di fatti nuovi nel contesto di responsibilità criminali attribuite ad un presidente. Principalmente, si tratta del fatto che il pubblico americano è oggi al corrente delle responsabilità del presidente Trump “elencate – secondo gli accusatori – da una valanga di prove” che continuano ad accumularsi. Questo avviene non solo nell’aula della Camera dei Rappresentanti ma presumibilmente negli uffici degli investigatori del Dipartimento della Giustizia. L’Attorney General sembra attendere il corso degli eventi e ciò mette in allarme un numero crescente di critici i quali temono che l’eventuale conquista di almeno una delle camere da parte dei repubblicani nelle elezioni del prossimo novembre metterà una pietra tombale sulla possibilità di un rinvio a giudizio di Donald Trump. E’ certo comunque che Garland è assillato dal giudizio che la storia darà del suo operato, al punto che ha concesso un’intervista in cui ha affermato che il suo dipartimento riterrà “criminalmente responsabili” coloro che hanno tentato di interferire con il legale trapasso dei poteri da un’amministrazione ad un’altra”. Fonti del Dipartimento hanno rivelato che intense indagini stanno mettendo in luce la strategia del capo di Trump di presentare liste contraffatte di presunti grandi elettori statali nell’intento di vanificare quelle risultanti dal voto elettorale. Tra tutti spicca il caso della Georgia e delle pressioni di Trump sul Segretario di Stato Brad Raffensperger per “trovare 11.780 voti” che avrebbero assicurato al presidente i voti elettorali dello stato. Non a caso,
l’indagine potenzialmente più esplosiva a carico di Trump è proprio quella nella Georgia, aperta dal procuratore di stato della Contea di Fulton, Fani Willis. Fino ad oggi, nessun ex presidente americano è stato rinviato a giudizio per reati commessi durante la sua presidenza. Stando a recenti sondaggi, il 50 per cento degli americani è d’opinione che Trump dovrebbe essere sottoposto a giudizio ma solo il 28 per cento è convinto che lo sarà. Tutto lascia pensare che non ci sarà un rinvio a giudizio di Donald Trump da parte del presente Attorney General. Un altro caso, insomma, di un prosecutor che non accusa.