Come il “giorno dell’infamia” del dicembre 1941, cosí chiamato dal presidente Roosevelt all’indomani dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, l’America affronta il 6 gennaio la rievocazione di un altro “giorno dell’infamia”, l’insurrezione delle milizie di Donald Trump contro le istituzioni della democrazia americana.
Ad un anno da quel catastrofico evento, le prove che l’allora presidente Trump fu il mandante del sollevamento si fanno sempre più consistenti. E’ ormai un fatto accertato che Trump fu a contatto che i suoi scherani nel vicino hotel Willard per concordare la strategia volta a bloccare e quindi rovesciare
la certificazione dei risultati elettorali del novembre 2020. Il Comitato 6 Gennaio della Camera dei Rappresentanti sta alacremente tentando di procurarsi le registrazioni telefoniche della Casa Bianca nei giorni 5 e 6 gennaio, come ha confermato Bennie Thompson, un deputato democratico del Mississippi,
capo del comitato.
La battaglia legale infuria a più livelli con l’ex presidente disperatamente impegnato a bloccare tutti i tentativi del comitato di assicurarsi ogni documento collegato all’assalto della truppa di Trump al Campidoglio, dai memoranda interni ai registri telefonici, ed in modo speciale la corrispondenza
intercorsa tra gli uomini del presidente ed i senatori e rappresentanti repubblicani dentro e fuori del Congresso. Gli sforzi di Trump non sembrano avanzare in quanto una corte statale e corti di appello federale hanno accolto le argomentazioni dell’esecutivo democratico secondo cui gli interessi degli Stati Uniti prevalgono sull’intenzione di Trump di mantenere confidenziali i documenti associati all’assalto al Campidoglio. Per tutta risposta, Trump si è appellato alla Corte Suprema, che è in pratica un feudo
repubblicano grazie al fatto che da presidente Trump è riuscito a nominare tre giudici conservatori, contrari tra l’altro all’aborto. A sua volta, il comitato ha interposto appello chiedendo che la Corte Suprema esamini il caso entro il 14 gennaio.
I democratici spingono ovviamente per una celere risoluzione del caso, prima delle elezioni di midterm il
prossimo novembre, quando potrebbero perdere il controllo della Camera dei Rappresentanti, con il risultato che la nuova maggioranza repubblicana non mancherebbe di
affossare le indagini sulle responsabilità di Trump nei fatti del 6 gennaio. Qul che infuoca la controversia sul ruolo di Trump – che arringò i suoi miliziani ammonendoli che se non si fossero mossi non avrebbero più “avuto un Paese”- è il fatto che la più spietata requisitoria anti – Trump trova protagonista
la Rappresentante republicana Liz Cheney, vice capo della commissione 6 Gennaio. Liz è la figlia dell’ex vice presidente Richard Cheney, che a detta di Liz è “fortemente turbato” dallo stato della nazione e del partito repubblicano. Liz Cheney ha ripetutamente affermato che uno dei principali
obiettivi dell’inchiesta è quello di stabilire se Trump – attraverso la sua “azione o inazione” – abbia svolto “ostruzione” al procedimento congressuale per il definitivo conteggio
dei voti elettorali.
Esistono prove che nelle sue chiamate ai membri del complotto asserragliati nell’albergo Willard Trump era su tutte le furie perché il suo vice presidente Pence non accettava di farsi parte responsabile di una denuncia dei risultati elettorali. E’ cosa nota che Pence non aveva alcun potere di rovesciare il verdetto delle urne, una strategia invocata dal principale patrocinatore di Trump, l’avvocato John
Eastman, autore di un piano articolato in sei punti di un memorandum per il golpe post-elettorale.
del 4 gennaio. Trump ha ferocemente attaccato il suo vice presidente chiamandolo “arrogante” per non aver assecondato quell piano. Ed ora Trump ha fatto sapere che terrà una conferenza stampa il 6 gennaio. E’ facile intuire quel che dirà, a cominciare dall’asserzione che i dimostranti non erano armati. I numerosi video dell’insurrezione testimoniano abbondantemente la
violenza dei trumpisti nel recinto del Campidoglio. La risposta democratica sarà imperniata su una strategia in seno al Congresso che mira a spuntare l’arma di cui dispongono i repubblicani per paralizzare l’azione legislativa di Biden. Si tratta del tanto deprecato “filibuster”, la soglia di sessanta voti al Senato per l’approvazione dei disegni di legge. I democratici dispongono di cinquanta voti (più quello del vicepresidente in caso di parità) ma sono handicappati da due senatori “moderati” che rifiutano di votare con gli altri 48 senatori e bloccano l’approvazione della legge Build Back Better che prevede forti benefici sociali ed economici per la classe media. La controffensiva democratica mira ora a modificare le norme procedurali e ad impostare il dibattito legislativo non più sulle proposte sociali ma sui diritti di
voto. Per aprire il dibattito su questo tema i democratici hanno scelto un altro giorno fatidico, il 17 gennaio, la Giornata di Martin Luther King. Il leader democratico del Senato Schumer ha posto la questione in termini di rivalsa contro la strategia repubblicana di conquista del potere
attraverso leggi statali che sopprimono i suffragi delle minoranze democratiche negli stati dove i repubblicani controllano le legislature.
Schumer ha posto il quesito di fondo: come si può permettere una situazione in cui il partito repubblicano può discutere ed approvare leggi di soppressione del voto al livello statale con un semplice voto a maggioranza semplice ma non permette la stessa regolamentazione al Senato? Di fatto, il “filibuster”,
adottato per proteggere i “diritti della minoranza”, è collegato direttamente ai nostri giorni con la politica
repubblicana volta a deligittimare il processo elettorale. Ciò premesso, la vigilia elettorale del 2022 non potrebbe essere più gravida di pericoli per la costituzione e la democrazia ad essa si ispira.