Se i democratici perderanno le elezioni presidenziali del prossimo anno, non ci sara’
bisogno di grandi analisi per individuare la causa. La risposta sara’ semplice: “the
squad”, ossia la quaterna di giovani deputate i cui nomi sono sulla bocca di tutti:
Ilham Omar, Alexandra Ocasio-Cortes, Rashida Tlaib e Ayanna Presley. La strategia
di Donald Trump e’ ormai perfettamente chiara: dimostrare che le donne della
“squadra” sono ormai la faccia e l’anima del partito democratico e che la Speaker
Nancy Pelosi appartiene al passato. Il dramma dell’America contemporanea e’
dovuto a cause complesse ma una e’ incontrovertibile: i media sono i maggiori
responsabili di una situazione in cui aiutano Donald Trump a presentare la
soverchiante immagine di se stesso e del suo operato. Quel che Trump riesce a fare
e’ definire in tal modo la sua candidatura e l’immagine dei suoi oppositori.
Ma come puo’ un presidente sostenere in pubblico di non avere “un osso razzista nel
mio corpo” mentre ogni comparsa in pubblico e’ diretta alla sua base elettorale che
e’ intrisa di razzismo, aperto o dissimulato, rappresentativa dei sentimenti che
animavano la maggioranza bianca e che riflettevano un corso storico di razzismo
istituzionale. Da allora, la maggioranza bianca si e’ assottigliata e l’appello al
razzismo si e’ insinuato nel dialogo politico sotto etichette e mutazioni diverse. La
sua presenza nel dialogo attuale si manifesta attraverso quella mistificazione che gli
americani definiscono ”dog whistle politics” – la politica del fischio del cane – che sta
a significare l’uso di appelli razziali in codice. In altre parole, l’appello e’ dissimulato
in modo da permettere un plausibile diniego. Nella fattispecie di Donald Trump, la
sua invettiva “Ritornatene dove sei venuta!” lanciata alle quattro rappresentanti di
colore – ma in modo speciale a Ilham Omar, nata in Somalia – puo’ essere intesa
come un’espressione di razzismo da alcuni ma distinta dal razzismo per altri. E’
quello che permette a Trump di negare di essere razzista e di accusare i suoi critici
di ricorrere ad argomenti razzisti. In pratica, per Trump i veri razzisti sarebbero
coloro che lo accusano falsamente di razzismo.
Non vi e’ debbio alcuno insomma che la strategia di Donald Trump sia quella di
sfruttare, esacerbandole, le divisioni razziali. E’ una strategia sicura per solidificare
la base ma soprattutto l’elettorato bianco delle regioni rurali del Midwest e del Sud
che respingono in pieno politiche sociali liberali, regolamentazioni federali ed in
modo speciale la legittimita’ costituzionale dell’aborto. Mentre l’America
progressiva si batte oggi per l’adozione di politiche che pongano rimedio alla
crescente diseguaglianza, Trump la giustifica senza ricorrere alle vecchie etichette
razziali. In senso concreto, il dibattito sulle divisioni razziali favorisce Trump.
Fintanto che il partito democratico accettera’ questa dinamica di scontro, che
distrae la nazione dall’esercizio dei diritti politici determinanti per il suo futuro,
compromettera’ l’obiettivo centrale della sua campagna elettorale, che e’ quello di
salvaguardare il benessere degli americani, a cominciare dall’estensione dei diritti
conquistati con il programma di assistenza sanitaria, noto ormai come Obamacare.
E’ questa del resto l’unica presa che i democratici hanno su un settore non
indifferente degli elettori repubblicani, e soprattutto sugli indipendenti. Per quanto
riguarda lo spartiacque razziale, i democratici faranno bene a non coltivare illusioni.
Gli ultimi sondaggi rivelano che l’88 per cento dei repubblicani sono solidali con i
tweet razzisti del presidente. Quando la Camera dei Rappresentanti ha approvato
una risoluzione con cui condannava i tweet in questione come “commenti razzisti
che legittimano ed accrescono l’odio verso i nuovi americani e la gente di colore”,
solo quattro Congressmen repubblicani hanno votato a favore. Quello che molti
temono e’ che la retorica del razzismo possa sfociare nella violenza, diretta
soprattutto agli americani di origine o di fede islamica. Di questi timori si e’ fatta
portavoce la Rappresentante democratica del Michigan Rashida Tlaib, secondo la
quale l’odioso messaggio del presidente e’ diretto “ad ogni singola persona che
condivide la mia identità”.
L’incessante attacco di Trump contro la “squadra” delle quattro rappresentanti di
colore – accusate ormai di tutto, dalla mancanza di amore per l’America alla
stupidita’- sara’ una delle chiavi dominanti della battaglia elettorale ma avra’ anche
pesanti ricadute sulla leadership dello Speaker della Camera Nancy Pelosi. Questa ha
il poco invidiabile compito di contenere l’estremismo delle quattro esponenti
progressive, neutralizzando la strategia con cui Trump le identifica con il partito
democratico, e di mantenere la coesione del partito stesso evitando che la
competizione tra i numerosi aspiranti alla nomination crei un solco tra progressisti –
alla maniera di Bernie Sanders, Elizabeth Warren e Kamala Harris – e moderati dello
stampo di Joe Biden. Per la Pelosi, e’ gia’ una fatica erculea quella di arrestare la
stampede di una gran numero di deputati democratici che sospingono una
procedura di impeachment del presidente. Di fatto, la leader democratica ha una
missione, quella di dare fiato ai sei comitati della Camera che raccolgono le prove
degli abusi di potere e di ostruzione della giustizia commessi dal capo dell’esecutivo.
Il risultato di questa azione dipendera’ in notevole misura dall’imminente
testimonianza al Congresso dell’ex inquisitore speciale Mueller. Tutto lascia pensare
che Mueller, un uomo tranquillo, non fara’ esplodere alcuna bomba. Ma i
democratici sperano che almeno renda probanti le risultanze dell’inchiesta svolta
dal suo team, con un indice di credibilita’ sufficiente a convincere quella parte
dell’elettorato che rimane scettica sulla inevitabilita’ dell’impeachment del
presidente o quanto meno sulla sua colpevolezza rispetto agli “high crimes and
misdemeanors” previsti dalla costituzione. In ultima analisi, per defenestrare Trump
ci vorra’ un colpo di scena che elimini la sconcertante capacita’ del presidente di
influenzare gli eventi a suo favore.