C’e’ voluto del tempo, ma finalmente la stampa americanaha cominciato a recitare il mea culpa per il caos in cui versano il governo e la societa’ americana in quella chepassera’ alla storia come l’era Trump. L’America e’ unanazione che prima al mondo ha saputo instaurare unademocrazia costituzionale che annovera tra i suoi principila liberta’ di espressione sancita dal Primo Emendamento. Nessuno avrebbe mai potuto pensare che un giorno gli StatiUniti avrebbero eletto un presidente che accusa la stampadi essere “il nemico del popolo”, ne’ piu’ ne’ meno come aveva fatto Stalin. Finalmente, gli americani, o meglio unamaggioranza degli americani, si sono accorti che gliattacchi del loro presidente ai mezzi di comunicazione ed aigiornalisti in generale hanno messo a serio repentaglio la capacita’ della stampa di promuovere l’aperto dibattito tra icittadini e di fare luce sugli eventi – come il faro dell’indimenticabile immagine di Walter Lippman. Questidiceva che la stampa e’ un fascio di luce in perennemovimento da un argomento all’altro, da una storiaall’altra, che illumina le cose ma non le spiega maicompletamente. Con cio’ Lippman non voleva dire che la notizia e la verita’ sono la stessa cosa ma che “la funzionedelle notizie e’ di segnalare un evento mentre la funzionedella verita’ e’ di portare alla luce i fatti nascosti, di metterliin relazione tra di loro, e di creare un’immagine dellarealta’ sulla quale gli uomini possano agire”. Nell’era diTrump la stampa americana e’ venuta meno a quellaconsegna di Lippman: invece di scoprire la verita’, non ha fatto altro che costruire narrative che riflettono ilpregiudizio, l’ignoranza, le speranze e la confusione. Quelche Lippman avvertiva nel 1922 e’ tornato in vita con prepotenza ai giorni nostri, quando la stampa e’ piu’ frammentata, piu’ competitiva e sospinta dal profitto. Unavolta presa una posizione partigiana che rispecchia isentimenti del suo pubblico, un giornale o una retetelevisiva non possono piu’ modificarla.
Il problema fondamentale dei media contemporanei in America e’ che grazie a Trump essi vendono giornali e prodotti televisivi a iosa. Donald Trump e’ una creaturadella televisione della quale si e’ abilmente servito per raggiungere l’apice del successo politico, assicurandosi ore di copertura televisiva gratuita; quel che e’ peggio, si e’ servito dei media per sminuire il potere giudiziario, per neutralizzare la missione investigativa dello FBI e dellacomunita’ di “intelligence” ed in generale il servizio civiledi carriera. In pratica, Trump ha scalzato la credibilita’ diqueste istituzioni. Tra coloro che si chiedono fino a qualpunto i media continueranno a farsi complici di Donald Trump e’ l’editorialista del New York Times Frank Bruni, che in recente articolo pone questo grave quesito: in qualemisura i media potranno permettere a Trump di “stabilire iparametri” della campagna elettorale del 2020, ripetendol’errore commesso nel 2016 e nelle prime fasi dellapresidenza Trump. Osserva Bruni, a proposito del recentemessaggio alla nazione nel quale Trump ha perorato la suapretesa di costruire un muro al confine con il Messico: “noidei media abbiamo dovuto cimentarci – e decidere quandoe come resistere – con il suo talento di usarci come strumenti di propaganda”.
E’ ora insomma di “redimerci” – implora il columnist del Times – e di agire in modo diverso rispetto all’ultima voltaper la semplice ragione che il successo o il fallimento deimedia “avra’ conseguenze per la loro statura in un momento in cui la pubblica fiducia nei media e’ traballante”. Con questo avvertimento a seguire: “tutto cio’ alzera’ o abbassera’ la temperatura del discorso civico chee’ pericolosamente alta”.
Tra i tanti esempi dell’incapacita’ dei media di diffondere la giusta immagine della realta’ prospettata da Walter Lippman va segnalata l’ossessiva attenzione rivolta allafigura di Trump ogni volta che il presidente apre la bocca o scatena uno di suoi tweet. La copertura giornalistica diTrump e delle sue sfuriate dovrebbe essere soggetta a criteridi equilibrio e di equita’ politica. Purtroppo, la stampa cadecostantemente nel tranello di ripetere ed amplificare le descrizioni con cui Trump deride i suoi avversari politici, affibbiando loro nomignoli insultanti, come nel caso dellasenatrice democratica Elizabeth Warren, che eglicostatemente chiama Pocahontas per uno sfortunatoriferimento della senatrice ad una sua possibile discendenzanativa americana. Invece di ignorare il costante oltraggioalla Warren ed altre personalita’ politiche vittimizzate daingiuriosi nomignoli, la stampa si affanna ad accertare la reazione delle vittime e subito dopo le contromosse diTrump. Frank Bruni si chiede se nella prossima campagnaelettorale i media eviteranno finalmente di dare spazio agliindegni soprannomi di Trump per i suoi oppositori, democratici e repubblicani che siano, occupandosi invecedi argomenti piu’ importanti.
Il danno che Donald Trup ha recato alla stampa e’ quantomai esteso, in termini che riflettono i valori fondamentali diobiettivita’ e “fairness” (imparzialita’) che per lungo tempo hanno informato quello che veniva chiamato il “quarto potere”. In pratica, la stampa assolveva il compito diesaminare questioni di assodata importanza offrendo aicittadini la possibilita’ di ricevere e giudicare argomentiopposti. Sfortunatamente, il giornalismo contemporaneoriflette interessi, passioni e le fissazioni dei politici dentro e fuori delle stanze del potere. E. J. Dionne, un notogiornalista (fu anche corrispondente da Roma), osserva a questo proposito: “perche’ la democrazia funzioni, occorreequilibrio tra la ragione, le emozioni e l’interesse. Quandola ragione e’ in ritirata ed i candidati sfruttano incentivi nelsuscitare empie passioni, sorge un grave problema”. Secondo Dionne, Trump e’ al tempo stesso il prodotto ditale crisi e la sua “apoteosi”. Il suo comportamento politico e’ “insensato e disonesto”, come dimostra la suaaffermazione di non aver mai detto che il Messico avrebbepagato per la costruzione del muro. Secondo un computodella Washington Post, il presidente lo ha detto 212 volte durante la campagna elettorale del 2016, per non parlare del periodo successivo alla sua elezione.
E.J. Dionne punta il dito sulla stampa quando segnala la suapiu’ grave manchevolezza nella campagna elettorale, l’attaccamento ad un giornalismo secondo cui “entrambe le parti sono reprensibili”, con il risultato di non aver saputopresentare Trump per quello che e’, una “aberrazionemorale”. In un appassionato richiamo agli insegnamenti diLippman, Jay Rosen della New York University si batteaffinche’ i media seguano “l’agenda dei cittadini” nel 2020, accentrando la loro attenzione sui problemi che stanno a cuore alla comunita’ e sulle soluzioni che i politicipropongono. Il problema e’ che molti “cittadini” vivononelle “bolle” create proprio dai media, nelle qualipalesemente non c’e’ posto per il giornalismo tradizionale. Tra gli artefici di queste “bolle” si distingue la catena televisiva Fox, l’altoparlante di Donald Trump e dei suoiseguaci.
C’e’ da temere insomma che i media continuino ad offrireuno spettacolo focalizzato sulle personalita’ e ad indagaresulla loro “eleggibilità” ignorando la ben piu’seriaresponsabilita’ dei media, che Dionne definisce “la capacita’ di influenzare come parliamo tra di noi circa la politica”. Non basta che i media richiamino l’attenzionesulle bugie che certi politici propinano a ripetizione, come fa Donald Trump, il presidente piu’ mendace nella storiaamericana. Il problema sul quale i giornalisti devonoriflettere e’ questo: nel 2016 un gran numero di americanisapeva di che pasta fosse fatto Donald Trump; malgradocio’, votarono per lui perche’ nutrivano maggioreavversione verso Hillary Clinton. Questa era la conseguenza del fatto che i media avevano trattato la candidata democratica e il repubblicano Trump alla stessastregua in termini di “idoneita’ a governare”. “Una follia”, la definisce oggi Thomas Patterson, un docente ricercatoredi Harvard. La conclusione del presente mea culpa, o quasi,dei mezzi di comunicazione per il penoso stato in cui versa il governo dell’America non puo’ che essere questa: la stampa dovrebbe assolvere sin dagli inizi un compito in particolare, quello di mettere in guardia l’elettorato neiconfronti di quei candidati che – come ammonisce Dionne – “mentono persino circa le proprie bugie”.