Uno degli aspetti piu’ grotteschi della brutale eliminazione di Jamal Khashoggi e’ che
proprio nei giorni in cui il giornalista veniva smembrato nel consolato saudita ad
Istanbul, il Segretario di Stato americano Pompeo lanciava l’ennesima sparata
contro l’Iran per il suo “comportamento maligno” accusando Teheran di “usare fondi
per fomentare il terrore nel mondo”. E’ un’accusa che l’America di Trump continua a
rivolgere all’Iran insieme a quella secondo cui l’Iran appoggia i talibani e al Quaeda,
organizzazioni terroristiche di matrice sunni che alla realta’ dei fatti sono alimentate
da fonti saudite. Non una parola invece sull’evidente “comportamento maligno”
dell’Arabia Saudita, che impiega indiscriminatamente aerei e bombe americani nello
Yemen mietendo vittime tra la popolazione civile.
A lume di logica, sembra essere giunta l’ora in cui gli Stati Uniti dovrebbero rivedere
una politica che e’ in pratica un assegno in bianco al regno saudita a perseguire una
bellicosa strategia nel Medio Oriente che non e’ nell’interesse dell’America. Mentre il
Presidente Trump esprimeva tendenziosi giudizi a Washington volti a contenere le
ricadute dell’esecuzione di Khashoggi, l’Europa muoveva i primi passi per imporre
un embargo delle vendite di armi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi. Ed ancora, il
parlamento europeo invocava l’intervento della Corte Criminale Internazionale
(ICC) a seguito delle operazioni belliche dell’Arabia Saudita nello Yemen e della
distruzione dell’eredita’ culturale yemenita nella vecchia citta’ di Sana.a e nello
storico centro di Zabid.
Nulla di tutto questo si e’ verificato negli Stati Uniti, quanto meno nella condotta
della Casa Bianca che non appare disposta a rinunciare ai favolosi acquisti di armi
americane da parte saudita ne’ tanto meno al “matrimonio di interessi” che il genero
del presidente ha contratto con l’erede al trono saudita. Vero e’ che esponenti del
Congresso, tra i quali il senatore repubblicano Graham, hanno elevato voci di
protesta per l’atroce fine del giornalista arabo, residente permanente negli Stati
Uniti, aprendo l’alternativa di un ricorso alla legge Magnitsky, originariamente
indirizzata ai crimini commessi in Russia in violazione di diritti umani, ed estesa
globalmente nel 2016 a carico di esponenti stranieri coinvolti in tali violazioni ai
quali vengono comminate sanzioni finanziarie e il divieto di ingresso negli Stati
Uniti.
Gli Stati Uniti di Donald Trump purtroppo non sono piu’ all’avanguardia della difesa
dei diritti umani nel mondo. Il presidente repubblicano del resto ha gia’ detto che i
diritti umani rappresentano un “impedimento” alla continuazione di vendite
all’Arabia Saudita, vendite che a suo dire assicurano lavoro in molti stati
dell’America. L’immoralita’ personificata dal capo di stato americano si accompagna
alla sua nota ammirazione per i dittatori, da Putin a Kim Jong-un, e allo stretto
rapporto con Mohammad bin Salman, il leader saudita ritenuto il vero mandante
dell’esecuzione di Khashoggi. Non altrimenti si spiega la documentata presenza
delle sue guardie del corpo nella squadra di “killers” che ha soppresso Khashoggi. In
ogni caso, non vi e’ dubbio che Trump non firmera’ mai un provvedimento che
modifichi in alcun modo i forti vincoli economici e militari con il regno saudita ed il
suo leader de facto MbS. Ancor meno probabile e’ che Trump imponga sanzioni
punitive a carico dei sauditi.
Quanto alla possibilita’ che l’Amministrazione Trump decida di riequilibrare la sua
politica nel Medio Oriente (una politica che e’ fortemente influenzata da Israele),
vari fattori entrano ora in gioco. Primo fra tutti, il ruolo della Turchia, che sta
sfruttando il crimine saudita per riproporsi come leader del mondo islamico e
alleato chiave degli Stati Uniti. In aggiunta, Ankara esalta la sua posizione
geopolitica non solo nei confronti dell’Arabia Saudita, ma anche della Russia e
dell’Iran. Molto dipende dall’aspettativa che la Turchia espliciti le accuse di
assassinio politiche all’Arabia Saudita ed al principe Mohammad in particolare. Una
conclusione comunque e’ certa, ed e’ l’emergere di un’alleanza di fatto della Turchia
con la Russia e l’Iran con il disegno di favorire la cessazione delle ostilita’ in Siria ed
il rafforzamento del presidente Bashar al-Assad. Per quanto riguarda l’Iran, e’
probabile che la Turchia aiuti gli iraniani ad evadere in qualche misura il nodo
scorso delle sanzioni americane. Una conseguenza del nuovo ruolo della Turchia e’
che per quanto le sanzioni mordano, la prospettiva di un collasso del governo
iraniano si allontana insieme con quella di una rinegoziazione dell’intesa nucleare, il
dichiarato obiettivo di Trump. La leadership clericale dell’Iran ha buon gioco nel
fare appello agli alleati degli Stati Uniti affinche’ non aggravino l’effetto delle
sanzioni americane che verranno annunciate il 5 Novembre. Come noto, Trump ha
annunciato ritorsioni nei confronti di quelle industrie o banche internazionali che
dovessero mantenere rapporti commerciali con l’Iran.
Tra i possibili risultati favorevoli di una vicenda altrimenti macabra vi e’ quello di un
rilancio dei rapporti turco-americani, sulla scia anche del rilascio del predicatore
evangelista americano Andrew Brunson, imprigionato dalle autorita’ turche per due
anni con l’accusa di spionaggio. E’ discutibile comunque che il disgelo tra
Washington ed Ankara possa portare in breve termine al riconoscimento americano
di un nuovo ruolo della Turchia quale alleato primario dell’America. Il presidente
Erdogan certamente lo spera ed opera abilmente nel gestire le sopravvenute
tensioni geopolitiche a vantaggio della Turchia. Ma la sua politica e’ in grado di
conseguire esiti positivi per la Turchia solo a condizione che l’America di Trump
metta in atto una revisione della sua condotta nel Medio Oriente che tenga conto dei
reali interessi strategici, economici e politici. E’ quanto si augurano unanimente i
circoli politici e gli esperti americani che da tempo mettono in guardia contro gli
avversi effetti dell’alleanza tra Stati Uniti, Emirati ed Israele che l’ambizioso genero
di Donald Trump ha realizzato organizzando la prima visita del Presidente Trump a
Riyadh. Per quanto Trump e il suo segretario di stato si sforzino ora di attuare
un’operazione di “damage control” a favore dei sauditi, l’immagine di un’Arabia
Saudita riformista e’ profondamente scalfita agli occhi del mondo. In America un po’
meno, ma il fronte medio-orientale e’ ora in movimento e le conseguenze per gli
Stati Uniti non mancheranno di farsi sentire.