I Paesi alleati e amici, quelli che facevano conto sugli Stati Uniti come garanzia della loro sicurezza e dello sviluppo civile, si sono ormai arresi all’evidenza dei fatti. L’America, la grande nazione che aveva inventato e diffuso nel mondo una certa idea di “soft power”, intesa come capacita’ di attrarre e persuadere, ha imboccato una via in direzione totalmente opposta, quella del bullismo personificato dal suo presidente Donald Trump. Il termine “soft power”, coniato negli Anni Ottanta dal professor Joseph Nye, racchiudeva in pratica una strategia volta ad influenzare le preferenze di Paesi e persone nel mondo, senza ricorrere alla coercizione o a strumenti finanziari di sovversione. L’abilita’ di alterare i comportamenti altrui e’ impresa complessa e delicata ma l’America era un Paese singolarmente dotato a svolgere quest’opera, a motivo della sua storia democratica, della sua cultura, dei suoi valori politici e last but not least della sua autorita’ morale coltivata attraverso l’accoglienza e l’inclusione di masse di immigrati attratti dal “sogno americano”. Oggi, non passa giorno che il presidente americano non vanti una vittoria conseguita con l’esercizio di minacce, ritorsioni e con la pervicace distruzione di accordi vigenti, come l’intesa nucleare con l’Iran ratificata dalle Nazioni Unite. Il bullying di Donald Trump non conosce limiti. L’ultimo Paese in ordine di tempo a farne le spese e’ il Canada, forzato ad accettare una revisione dell’accordo NAFTA che di fatto ha cambiato ben poco oltre la designazione che vede gli Stati Uniti capeggiare il nuovo acronimo(USMCA).
Molto peggio e’ andata ai palestinesi. Dopo aver trasferito l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, stracciando decenni di rispetto dello status quo da parte delle precedenti amministrazioni, il presidente americano ha disposto la cancellazione di 200 milioni di dollari in assistenza ai palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, ha tagliato i fondi per l’agenzia dell’ONU che sfamava i rifugiati palestinesi, ed ha chiuso l’ambasciata palestinese de facto a Washington. Il bullismo e l’infima caparbia di Trump nei confronti di una popolazione affranta e costretta da Israele a vivere in condizioni miserevoli non permettono di nutrire alcuna speranza in un regolamento negoziato del conflitto palestinese-israeliano. Trump afferma di avere in mente un progetto negoziale, ma i palestinesi sanno bene che il bullismo di cui sono vittime non fara’ altro che cementare il loro stato di succubi del patto israelo-americano.
Il discorso del presidente Trump alle Nazioni Unite e’ certamente emblematico della sua mentalita’ di bullo. Sul palcoscenico dell’Assemblea Generale, la politica aggressiva e intollerante di Trump ha preso di mira importanti organismi internazionali, dalla World Trade Organization al Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu, dalla Corte Criminale Internazionale all’OPEC. A quest’ultimo proposito va preso atto della minaccia di Trump di non difendere le nazioni associate se queste non dovessero abbassare il prezzo del petrolio. Stando al discorso di Trump, l’America non e’ piu’ il Paese pronto a fornire assistenza all’estero basata su compassione e bisogni umani. D’ora in avanti, tale assistenza dipendera’ da quel che l’America ricevera’ come contropartita. L’America di Donald Trump e’ una “America First” che “rigetta l’ideologia del globalismo e abbraccia la dottrina del patriottismo”. Questa forma di nazionalismo esasperato e autoreferente e’ la sconcertante maschera del pugnace bullismo di Donald Trump. E dire che stando ad un’inchiesta della Brookings Institution il sessanta per cento degli americani ritiene che “Dio ha riservato all’America un ruolo speciale nella storia umana”.
Come puo’ l’America permettere ad un bullo di assumere un ruolo che e’ agli antipodi della natura della democrazia americana, dei suoi valori umani e del senso di responsabilita’ che a partire dal secolo scorso ha caratterizzato la leadership degli Stati Uniti? Il politologo Charles Kupchan tenta di rispondere con l’osservazione che America First in pratica gia’ esisteva, al tempo in cui il principio dello “exceptionalism” significava isolare l’esperimento americano dalle minacce estere, evitare il coinvolgimento nel mondo esterno, e preservare una popolazione relativamente omogenea con politiche razziste ed anti-immigranti. Pearl Harbor cambiava la psiche americana, ma da allora gli americani si sono stancati di agire da gendarme globale e nutrono scetticismo nella globalizzazione ed immigrazione. Certo e’ che l’America odierna non e’ piu’ una societa’ omogenea.
Donald Trump ha portato con se uno scisma politico le cui conseguenze si faranno sentire per molto tempo ancora. Quel che piu’ grava sul presente e’ la mancanza di impegno verso l’idea della democrazia come un valore universale. L’America rischia di finire ai bordi della contesa democratica globale in un momento in cui tale contesa e’ la piu’ intensa nella storia moderna. Donald Trump associa la sua attrazione verso i dittatori – Vladimir Putin, Kim Jong-un, Xi Jinping, Abdel Fattah el-Sisi e Mohammed bin Salman – all’aperto bullismo e alla denigrazione degli esponenti democratici. In parole povere, Trump non e’ interessato ad assistere l’avanzata globale della democrazia, come afferma un recente studio della Carnegie Endowment for International Peace. Sul fronte interno, il catalogo delle tendenze anti-democratiche di Trump include l’incitamento al conflitto razziale ed etnico, lo svilimento dei fondamentali processi elettorali, la corruzione ad alto livello ed una incessante congerie di minacce contro coloro che esprimono critiche al suo operato.
Gli apologisti di Trump si sforzano di far passare tale operato come “puro realismo”. Di fatto, la politica di Trump conferisce la maggior priorita’ non alla promozione della democrazia ma all’eliminazione di governi ostili, dall’Iran al Venezuela. Il timore dei circoli democratici e’ che la competizione geostrategica con la Russia e la Cina finisca col deprimere ancor piu’ l’opera di promozione della democrazia che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale costituiva una costante della politica degli Stati Uniti. In particolare, gli alleati e partner dell’America registrano esterrefatti le sperticate lodi nei confronti del presidente egiziano Sisi, definito “vitale partner di sicurezza negli sforzi per combattere il terrorismo ed altre cose”. Agli alleati europei nella NATO ed all’Unione Europea Trump riserva invece la definizione di “foe” ossia di “nemico”, vuoi perche’ non pagano abbastanza per la difesa comune vuoi perche’ mantengono un surplus nelle partite correnti con gli Stati Uniti. Per contro, la Casa Bianca ha avuto quest’anno parole di plauso per l’Ungheria e per il valore dei suoi “elementi positivi di sicurezza”. Washington non appare interessata ad esercitare opera di persuasione sul governo Orban perche’ rispetti l’ordinamento democratico connaturato nell’Unione Europea. Vero e’, come avverte ancora lo studio della Carnegie, che esiste uno “scisma” tra la “politica alta” che emana dalla Casa Bianca e la “politica bassa” che agisce per la promozione degli elementi costituenti della diplomazia, delle comunita’ attive nelle branche esecutiva e legislativa, e delle istituzioni impegnate a sostenere la democrazia globale. Per questi attori, si tratta di sopravvivere due anni, sperando che le elezioni presidenziali del 2020 pongano fine al bullismo di Donald Trump.
Il giudizio di una eminente storica, Doris Kearns Goodwin, individua il problema per l’immediato futuro: persuadere una maggioranza degli americani, compresa la base trumpista, che Trump non ha il temperamento per essere un leader. La studiosa afferma: “contrariamente a Teddy Roosevelt, che lavorava attorno ad un giusto “deal” per i ricchi e per i poveri, per il capitalista e lo stipendiato, Trump dice che un “deal” in cui entrambe le parti vincono e’ una stronzata e tutto quello che conta e’ vincere e schiacciare il tuo avversario”. La lezione della storia, conclude Doris Kearns Goodwin, e’ che “la questione non e’ quella di aspettare un nuovo leader, ma quella di attivare i cittadini nella politica e di gettare le fondamenta per qualsiasi leadership destinata ad emergere”.
Nel frattempo, la presidenza di Donald Trump e’ una successione di episodi di bullismo; l’ultimo in ordine di tempo e’ stato la forzatura con cui ha imposto la nomina del giudice Brett Kavanaugh al Congresso, con una violenza verbale inaudita nei confronti dei democratici e di quanti avversavano l’ingresso alla Corte Suprema di un giudice al centro di denunce di trasgressioni sessuali. L’operazione di bullismo in atto concerne l’Iran, che Trump vuole ridurre in stato di sottomissione, ed i Paesi in Europa ed Asia che il presidente americano minaccia di punire con sanzioni secondarie qualora dovessero importare il petrolio iraniano. Il mondo e’ costretto a tollerare l’avvento di una forma di bullismo basato su decisioni unilaterali che non lasciano posto al compromesso. L’unilateralismo non e’ una condotta efficace per una superpotenza come l’America che ha sempre privilegiato una politica di sicurezza nel mondo. In definitiva, il bullismo di Trump non e’ altro che la promozione di un grezzo nazionalismo, una tendenza che ancora una volta riaffiora nella vecchia Europa, ma che non fa onore a quell’America che fino ad oggi il mondo ha ammirato.