Wag the dog ma senza risultati

Sono sempre di piu’ gli americani convinti che gli attacchi alle basi siriane collegate
alla produzione di gas tossici siano un’altra puntata della politica chiamata “wag the
dog”, letteralmente dimenare la coda del cane, l’equivalente di un’azione militare
lanciata per distrarre l’attenzione dalla grave problematica interna, una strategia
resa famosa da un film del 1997 dallo stesso titolo. I missili di crociera americani e le
bombe sganciate da bombardieri inglesi e francesi non hanno cambiato nulla della
guerra proxy in atto nella Siria. Assad rimane al potere; le sue forze hanno subito
scarsi danni: i russi, avvertiti per tempo, sono rimasti indenni nelle loro basi. Nuove
ondate di tomahawk e bombe intelligenti non influenzeranno il corso del conflitto,
ne’ tantomeno il protrarsi della presenza militare degli Stati Uniti che appare del
tutto incapace di consentire un minimo di stabilita’ nella regione. Ma quel che piu’
pregiudica la condotta strategica degli Stati Uniti e’ che il presidente Trump non
sembra rendersi conto del fatto che l’America e’ tagliata fuori dai giochi strategici
per il futuro di un Paese che a tutti gli effetti non e’ piu’ tale a partire dal 2012. Se
negoziato ci sara’, non avverra’ a Ginevra sotto l’egida impotente delle Nazioni Unite,
ma in quadro ristretto alle parti direttamente interessate: Assad, la Russia, la
Turchia e l’Iran.
Quanto al presidente Trump, e’ ormai evidente che e’ handicappato dagli avventati
inizi del suo mandato, dal divieto di ingresso per i musulmani di vari Paesi,
dall’ossessivo rigetto dell’accordo nucleare con l’Iran, dalla controproducente intesa
con il principe ereditario saudita, e da una politica aggressiva impersonata dal
nuovo segretario di stato Pompeo e dal consigliere per la sicurezza nazionale Bolton
che da lungo tempo propugna un attacco contro l’Iran. Se si e’ aperto uno spiraglio
nel disgraziato coinvolgimento americano nel Medio Oriente lo si deve al Congresso
dove quarantaquattro senatori hanno votato contro l’assistenza militare all’Arabia
Saudita nella brutale guerra nello Yemen, segnalando in tal modo che sarebbe ora
che il Congresso esercitasse le sue responsabilita’ costituzionali ponendo un freno
alle decisioni presidenziali per interventi militari all’estero. Questa presa di
posizione nella collina del Campidoglio non sara’ sufficiente, purtroppo, a mettere le
redini a quelle forze politiche, che sfortunatamente includono buona parte dei
media, decise a “far qualcosa” attraverso azioni militari per salvare il salvabile
dell’influenza americana nel Medio Oriente.
In un’ottica storica piu’ ampia, quel che pesa sulla politica mediorientale degli Stati
Uniti e’ che la “guerra perpetua” impedisce un realistico disegno di stabilizzazione
regionale. Il conflitto siriano si e’ fatto ancor meno gestibile in forza di nuovi
sviluppi, come la virtuale fine dell’alleanza strategica dell’America con la Turchia,
che ha volto le spalle all’alleanza atlantica e si e’ associata all’Iran e alla Russia
contro gli interessi degli Stati Uniti. Il presidente turco Erdogan ha un obiettivo,
quello di espandere il potere sunnita sotto la sua guida “ottomana”, sopprimendo la
minaccia di una popolazione curda in costante aumento demografico in quelle zone
contigue che la Turchia non potra’ mai controllare militarmente. Molti osservatori di
Washington – inclusi alti funzionari come il nuovo consigliere della Casa Bianca
Bolton – giudicano necessaria la formazione di una zona protetta per i curdi, se non
proprio di uno stato, come contrappeso all’influenza della Siria, dell’Iran e dell’Irak dominata da Teheran. I curdi si sono dimostrati un formidabile alleato degli Stati
Uniti come anche di Israele che sente avvicinarsi una minaccia iraniana verso il
littorale mediterraneo. Quanto alla Russia, e’ altamente probabile che non reagisca
ad una strategia mirante ad un’autonomia curda garantita dall’America, che dal
punto di vista morale pone riparo ai tradimenti dell’independentismo curdo
perpetrati anche all’epoca di Henry Kissinger.
Ogni analisi degli sviluppi in Siria non puo’ che partire dalla constatazione che la
Russia e’ divenuta arbitro del Medio Oriente e che il suo obiettivo primario e’ quello
di consolidare la prospettiva a lunga scadenza. Sotto questa luce, un conflitto aperto
tra Israele e la coalizione Iran-Hezbollah non e’ nell’interesse della Russia. Lo strike
missilistico contro le basi siriane ha deliberatamente evitato di trarre in causa le
sofisticate installazioni antiaeree russe che comprendono gli avanzati sistemi S-400.
Si e’ trattato in effetti di un quid pro quo, con il quale gli americani si sono
preoccupati di esporre i loro missili soltanto alle inefficaci difese antiaeree siriane
mentre i russi hanno evitato di rivelare le caratteristiche operative degli S-400.
Quel che lo strike siriano di Trump ha dimostrato e’ che la sua strategia
mediorientale e’ affetta da un’improduttiva dicotomia, quella di un confronto
tatticamente aggressivo con una strategia di ripiegamento. Il risultato, avvertono gli
esperti, e’ che lo strike ha scarso significato militare, al pari del significato
geopolitico che e’ pressoche’ nullo. Il fatto stesso che gli Stati Uniti e due affidabili
alleati come l’Inghilterra e la Francia attuino un intervento militare senza sollecitare
un’azione diplomatica da parte di quei Paesi che sono costantemente relegati al
ruolo di spettatori del conflitto dice molto sull’inutilita’ di giustificare l’errata
conduzione strategica con argomenti morali o con le vanterie militaristiche del
presidente Trump. Il segnale che lo strike ha inviato e’ stato quello di scoraggiare gli
alleati europei ed altri agenti globali dal prendere iniziative di pace accettando il
fatto, tanto per cominciare, che il cambio di regime a Damasco non garantisce in
alcun modo un ritorno negoziato alla stabilita’. A tale proposito, dovrebbe valere
l’esempio del caos in cui versa la Libia.
La politica di “wag the dog” di Donald Trump non promuove l’influenza americana
nella regione ne’ la capacita’ di controllare gli eventi. Il suo proclama di “mission
accomplished” e’ la piu’ assurda manifestazione di quella politica e della
continuazione della guerra perpetua. Manca soltanto che Trump imponga
nuovamente le sanzioni contro l’Iran, applicandole a tutti quei Paesi che intendono
commerciare con Teheran, per dimostrare nella misura piu’ esauriente la scomparsa
di una diplomazia americana capace di coniugare la forza militare con la “soft
power” di una strategia volta alla risoluzione dei conflitti. Nel 1998, l’allora
Segregario di Stato Madeleine Albright aveva fatto una dichiarazione che e’ rimasta
famosa: gli Stati Uniti “sono la nazione indispensabile”. Ed aveva aggiunto: “Noi
vediamo piu’ lontano nel futuro”. In moneta corrente, questa affermazione lascia
molto a desiderare. Dopo aver espresso l’intenzione di ritirare il contingente di
duemila soldati americani dalla Siria, a distanza di pochi giorni il presidente Trump
ha prospettato la possibilita’ di una forza araba destinata a rimpiazzare il contingente americano in Siria, con il contributo finanziario dell’Arabia Saudita,
Qatar ed Emirati arabi. La forza in questione avrebbe il compito di evitare che l’Iran,
la Russia o movimenti estremisti possano conquistare terreno nella ex Siria e
territori limitrofi. Di fatto, non e’ chiaro in qual modo gli Stati Uniti parteciperebbero
all’attuazione del piano. Ed ancora, regna il dubbio che gli stati invitati a formare la
forza araba siano disposti a farlo senza una presenza americana o quanto meno
l’indispensabile supporto aereo. Un addentellato positivo sarebbe comunque quello
di coinvolgere una massa di curdi e di combattenti arabi schierati con gli Stati Uniti
nella lotta contro i combattenti dello stato islamico. Quanto all’Egitto, appare restio
a partecipare ad una forza araba in quanto impegnato nella lotta alle milizie
islamiche nel Sinai e nel presidio della turbolenta frontiera con la Libia. Una cosa e’
certa, che la politica del presidente Trump non rende gli Stati Uniti “indispensabili”
nella misura in cui dovrebbe permetterlo la loro potenza militare. Di questo si sono
ovviamente accorti gli alleati europei, con conseguenze che solo adesso cominciano
a delinearsi sul fronte politico delle loro cancellerie.

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