Le prigioni americane: costi crescenti, business e nessuna riabilitazione

american prisonsVi sono statistiche che non fanno onore agli Stati Uniti. In particolare, quelle concernenti la carcerazione.
È di alcuni giorni fa la notizia che, per la prima volta nella storia nazionale, più di un americano su cento è in prigione.

Il numero dei carcerati in America è prossimo ormai ad un milione seicentomila. A questa popolazione carceraria vanno aggiunte altre 723.000 persone detenute in prigioni locali. Poichè la popolazione americana è di 230 milioni, ciò significa che un americano su 99,1 è, come si dice in America, dietro le sbarre.
Di fatto, gli Stati Uniti hanno il più alto numero di carcerati al mondo; la Cina, con una popolazione di 1 miliardo 300 milioni, ovvero cinque volte quella dell’America, è seconda con 1.600.000 carcerati. Se i carcerati costituissero uno stato americano, sarebbe il trentaseiesimo per popolazione.

E c’è un’industria in America che cresce ad un ritmo superiore (ed è tutto dire) di quello dell’industria della salute e dell’educazione: si tratta dell’industria carceraria, che costruisce e gestisce i detenuti federali e statali.
Nel 2010, infatti, il reddito dell’imprigionamento negli Stati Uniti era di tre miliardi di dollari per le due maggiori compagnie, la Correction Corporation of America e il Gruppo GEO. È l’industria che, oltre a generare profitti, dà lavoro ad una massa di persone, settecentomila. Ed è un lavoro ben pagato.

Prendiamo il caso della California, dove i carcerati sono 170.000. Per sorvegliarli sono in servizio trentamila guardie carcerarie. Si calcola che il costo di un carcerato statale in California sia di 47.000 dollari, 36.000 euro. Il costo totale è di 6 miliardi di dollari. Solo gli straordinari del personale carcerario costano mezzo miliardo di dollari alla California.
Sono cifre che la dicono tutta sugli squilibri di una nazione che è in fin dei conti la più ricca ed avanzata al mondo.
Uno studente costa mediamente allo stato della California la modica somma di 11.000 dollari. Ed ancora, il costo di uno studente di Community College – istituzioni universitarie biennali a basso costo finanziate dagli stati – è di appena 5.000 dollari. Lo studente di un college statale con corsi quadriennali costa poco di più, 7.000 dollari; quello di un’università statale, 12.000. Solo il Texas ha più carcerati della California, 172.000.

Preoccupata dai costi crescenti, la legislatura del Texas ha approvato modifiche all’amministrazione della giustizia nelle carceri aumentando il numero e la disponibilità di corsi di rieducazione per i tossicodipendenti e la concessione di libertà sotto forma di parole, ossia libertà provvisoria approvata dalla magistratura. Alla fine del 2011, all’incirca la metà dei detenuti in carceri federali erano stati condannati per violazioni delle leggi federali per il possesso e lo spaccio di droghe, incluso il semplice possesso di maijuana e di metamfetamine. Secondo una statistica del Justice Policy Institute, il 5,3 per cento era in carcere per possesso ed il 91,4 per cento per spaccio (trafficking). Secondo lo stesso istituto, ogni dollaro speso in programmi di riabilitazione presso comunità autorizzate permette il risparmio di 18 dollari per ogni detenuto che sconta la pena in un penitenziario.

Un altro segmento di impressionante entità è quello delle persone che vengono incarcerate per guida sotto l’influenza di droghe e alcool, la cosiddetta DWI. Solo nel Texas sono 5.500. Questa è la categoria dei crimini non violenti per i quali dovrebbero valere pene non detentive e la rieducazione. Ed ancora, il governo federale paga 90 dollari all’industria carceraria per ogni immigrante illegale arrestato e detenuto in uno speciale carcere a San Diego.

Che le carceri siano un buon affare lo prova anche il fatto che una delle due maggiori imprese ha speso 18 milioni di dollari negli ultimi dieci anni per ottenere concessioni da parte del Federal Bureau of Prisons, che controlla l’imprigionamento di 200.000 persone. Secondo statistiche federali, nel 2010 il 16 per cento dei detenuti federali ed il 7 per cento dei detenuti statali erano rinchiusi in carceri private.

Un’ultima triste constatazione è quella che concerne la composizione della popolazione carceraria. Nel 20016, un adulto nero su 15 era in prigione. Peggio ancora, un giovane nero, tra i 20 e i 34 anni, su nove è in un penitenziario. Ed ancora, un hispanico su 35 è in carcere. Infine, un’indagine del Pew Center ha accertato che mentre soltanto una donna bianca su 355 di un’età compresa tra i 35 e i 39 anni è in prigione, la percentuale per donne afro-americane della stessa età è di una su cento.

Il dibattito che si è aperto sull’anacronismo della giustizia punitiva si è fatto più intenso negli ultimi anni. Tra le ragioni che militano a favore di un passaggio dalla giustizia punitiva a quella “restorative” ossia di riabilitazione spicca la pressione finanziaria sugli stati. In pratica, si è aperta una finestra di opportunità che varie legislature stanno esaminando. Basti citare un dato di fatto, che nel 2007 gli stati hanno speso 44 miliardi di dollari per le cosiddette “corrections” ossia per l’amministrazione dell’imprigionamento. Nel 1987 la spesa ammontava a 10,6 miliardi: in venti anni, considerando l’inflazione, la spesa è aumentata insomma del 127 per cento. Nell’ultimo anno fiscale è previsto un aggravio di spesa dell’ammontare di 25 miliardi, stando ai calcoli della National Association of State Budgeting Officers. Valga un esempio: lo stato dell’Arizona spende 63 dollari al giorno per mantenere un carcerato. Per non parlare di un altro dieci per cento dovuto ai costi medico-sanitari in forte aumento, anche perchè la popolazione carceraria sta invecchiando.

Se è vero che l’opinione pubblica comincia a riflettere su questi costi, assolutamente sproporzionati nel caso di carcerati per crimini non violenti, vero è anche che la politica punitiva continua ad essere favorita da fattori politici, primo fra tutti il fatto che il sistema politico premia quei partiti e quei candidati che giocano la cosiddetta “crime card”, ossia la rigida applicazione degli statuti criminali come metodo di prevenzione della delinquenza. Gli stessi media coprono i fatti criminosi con un taglio che invoca e appoggia risposte punitive. Per contro, se emerge una tendenza a ristrutturare il sistema della “criminal justice” per introdurre principi di riabilitazione, ciò è dovuto in buona parte ad un riesame di fenomeni come il “replacement effect” che si applica a quei crimini che rientrano nella dinamica di un mercato come quello delle droghe. Una volta incarcerato uno spacciatore, emerge rapidamente un suo sostituto che in generale è più giovane e più portato ad una condotta violenta. Incarcerare i “soldatini” dello spaccio di droghe, per non dire i consumatori, ha scarso impatto sul crimine. Secondo il Pew Center, non solo apre nuovi spazi alle organizzazioni criminose, ma attira più giovani esacerbando il crimine.

Negli ultimi venti anni, il numero dei “drug offenders”, ossia di coloro che sono stati giudicati per possesso o spaccio di droghe, è cresciuto dell’ottanta per cento. L’ultima statistica in proposito, quella del 2009, rivela che il numero totale delle persone nel sistema carcerario americano condannate per possesso e spaccio di droghe era di quasi un milione settecentomila, inclusi i soggetti in libertà provvisoria per il regime di “parole” . I numeri, purtroppo, sono in netta crescita. In soli venti anni, i detenuti in carceri statali per violazione delle leggi anti-droga sono aumentati del 550 per cento. Ma c’è di più: secondo lo FBI, l’83 per cento degli arresti per droghe sono dovuti al solo possesso. Dal momento che si calcola che siano almeno sette milioni gli americani afflitti dalla dipendenza e dall’abuso di droghe, non vi è dubbio che l’aumento del numero dei carcerati negli Stati Uniti sia dovuto in gran parte all’imprigionamento per reati di droghe. Nessun altro Paese al mondo imprigiona quanto gli Stati Uniti per reati di droga. L’ex Drug Czar, il Gen. Barry Mc Caffrey, ha auspicato tempo addietro l’adozione di “”messaggi di prevenzione, educazione e trattamento” nella lotta contro le droghe condannando gli eccessi della politica punitiva, e concludendo con queste terrificanti parole: “credo proprio che abbiamo creato un Gulag americano”.

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